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Primo Levi, chimica e letteratura

Il primo poster della mostra I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza, organizzata a Torino dal Centro Primo Levi, Carbonio.

Alla conclusione di un seminario sulla persona e le opere di Primo Levi ciascuno dei partecipanti ha avuto il compito di produrre una tesina su uno degli aspetti della sua esistenza o dei suoi scritti. Avevo scelto il suo essere un chimico nel rapporto con la letteratura. La frase: “il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime!” mi aveva dato lo spunto. L’idea era di proporre dei testi sulla chimica tratti dai suoi libri a qualche studente fra quelli che sono giudicati e si giudicano “negati” per la matematica, convinti che le materie scientifiche sono inutili e noiose, non servono a niente, resi incapaci di comprenderle anche a causa di un insegnamento gretto, meccanico e prescrittivo. I tanti ragazzi spesso considerati discalculici a cui viene imposto un metodo di studio sequenziale che confligge con il loro modo di apprendere e la loro vivace creatività. Pensare la chimica come poesia è suggestivo e potrebbe affascinarli.

Ci ho provato, ho coinvolto due ragazzine nipoti di un’amica e il fantastico quindicenne che seguo da anni e che prende otto in disegno e in italiano, ma non va sopra il tre nelle materie scientifiche. L’idea era di fare un video in cui ciascuno scegliesse un paragrafo di Primo Levi fra quelli che ho selezionato e lo commentasse.

Siamo andati avanti a concordare una data per un paio di mesi senza trovarla. Così ho rinunciato, ma non definitivamente. Ci riproverò con l’aiuto di una giovane insegnante di lettere il prossimo anno scolastico.

Di seguito i testi che ho raccolto.

Il sistema periodico

Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse mani, e dicevo dentro di me: “Capirò anche questo, capirò tutto, ma non come loro vogliono. Troverò una scorciatoia, mi farò un grimaldello, forzerò le porte”

Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime!»

“Non si trattava solo di un mestiere esercitato, ma anche di una formazione esistenziale, di certe abitudini mentali e direi, prima tra tutte, quella della chiarezza. Un chimico che non sappia esprimersi è un povero chimico. Il mestiere di chimico in una piccola fabbrica di vernici (come Italo Svevo) è stato fondamentale per me anche come apporto di materie prime, come capitale di cose da raccontare”.

Idrogeno

Ecco quanto avremmo fatto: l’elettrolisi dell’acqua. Era un’esperienza di esito sicuro, che avevo già eseguito varie volte a casa: Enrico non sarebbe stato deluso. Presi acqua in un becher, vi sciolsi un pizzico di sale, capovolsi nel becher due barattoli da marmellata vuoti, trovai due fili di rame ricoperti di gomma, li legai ai poli della pila, e introdussi le estremità nei barattoli. Dai capi saliva una minuscola processione di bollicine: guardando bene, anzi, si vedeva che dal catodo si liberava su per giù il doppio di gas che dall’anodo. Scrissi sulla lavagna l’equazione ben nota, e spiegai ad Enrico che stava proprio succedendo quello che stava scritto lì. Enrico non sembrava tanto convinto, ma era ormai buio, e noi mezzo assiderati; ci lavammo le mani, comperammo un po’ di castagnaccio e ce ne andammo a casa, lasciando che l’elettrolisi continuasse per proprio conto.

Il giorno dopo trovammo ancora via libera. In dolce ossequio alla teoria, il barattolo del catodo era quasi pieno di gas, quello dell’anodo era pieno per metà: lo feci notare ad Enrico, dandomi più importanza che potevo, e cercando di fargli balenare il sospetto che, non dico l’elettrolisi, ma la sua applicazione come conferma alla legge delle proporzioni definite, fosse una mia invenzione, frutto di pazienti esperimenti condotti nel segreto della mia camera. Ma Enrico era di cattivo umore, e metteva tutto in dubbio. – Chi ti dice poi che sia proprio idrogeno e ossigeno? – mi disse con malgarbo. – E se ci fosse del cloro? Non ci hai messo del sale?

L’obiezione mi giunse offensiva: come si permetteva Enrico di dubitare di una mia affermazione? Io ero il teorico, solo io: lui, benché titolare (in certa misura, e poi solo per “transfert”) del laboratorio, anzi, appunto perché non era in condizione di vantare altri numeri, avrebbe dovuto astenersi dalle critiche. – Ora vedremo, – dissi: sollevai con cura il barattolo del catodo, e tenendolo con la bocca in giù accesi un fiammifero e lo avvicinai. Ci fu una esplosione, piccola ma secca e rabbiosa, il barattolo andò in schegge (per fortuna lo reggevo all’altezza del petto, e non più in su), e mi rimase in mano, come un simbolo sarcastico, l’anello di vetro del fondo.

Ce ne andammo, ragionando sull’accaduto. A me tremavano un po’ le gambe; provavo paura retrospettiva, e insieme una certa sciocca fierezza, per aver confermato un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura. Era proprio idrogeno, dunque: lo stesso che brucia nel sole e nelle stelle, e dalla cui condensazione si formano in eterno silenzio gli universi.

Ferro

Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime!

Zinco

Sulle dispense stava scritto un dettaglio che alla prima lettura mi era sfuggito, e cioè che il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale. Ma neppure la virtù immacolata esiste, o se esiste è detestabile.

Potassio

L’Assistente mi guardava con occhio divertito e vagamente ironico: meglio non fare che fare, meglio meditare che agire, meglio la sua astrofisica, soglia dell’Inconoscibile, che la mia chimica impastata di puzze, scoppi e piccoli misteri futili. Io pensavo ad un’altra morale, più terrena e concreta, e credo che ogni chimico militante la potrà confermare: che occorre diffidare del quasi-uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla), del praticamente identico, del pressappoco, dell’oppure, di tutti i surrogati e di tutti i rappezzi. Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse, come gli aghi degli scambi; il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico.

Cromo

Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Paradossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta.

La chiave a stella

Tiresia

Ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pienezza. Il suo, e il mestiere chimico che gli somiglia, perché insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovesce ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia ed a tenerle testa. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove. Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera.

Acciughe

Il mio mestiere vero, quello che ho studiato a scuola e che mi ha dato da vivere fino ad oggi, è il mestiere del chimico. Non so se lei ne ha un’idea chiara, ma assomiglia un poco al suo: solo che noi montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole.

Ci dividiamo in due rami principali, quelli che montano e quelli che smontano, e gli uni e gli altri siamo come dei ciechi con le dita sensibili. Dico come dei ciechi, perché appunto, le cose che noi manipoliamo sono troppo piccole per essere viste, anche coi microscopi più potenti; e allora abbiamo inventato diversi trucchi intelligenti per riconoscerle senza vederle.

L’altrui mestiere

Sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo». E poi aggiunge: questa separazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, se c’è, è «una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile.

«La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C’è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuol dire filtrare, cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la «passione impressa», ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l’ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: “nero come …”; “amaro come …”; vischioso, tenace, greve, fetido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene».

«Le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia, il vincere, il rimanere sconfitti. Quest’ultima è un’esperienza dolorosa ma salutare, senza la quale non si diventa adulti e responsabili. Ci sono altri benefici, altri doni che il chimico porge allo scrittore. L’abitudine a penetrare la materia […] conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. […]. Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo»

Il segno del chimico

Credo che ogni chimico conservi del laboratorio universitario un ricordo dolce e pieno di nostalgia. Non soltanto perché vi si nutriva una camaraderie intensa, legata al lavoro comune, ma anche perché se ne usciva, ogni sera e più acutamente a fine corso, con la sensazione di avere «imparato a fare una cosa»; il che, la vita lo insegna, è diverso dall’avere «imparato una cosa».

Il mondo invisibile

Mio padre, che frequentava da esperto tutti i banchetti di via Cernaia dove si vendevano libri usati, mi portò un giorno a casa un volumetto elegantemente rilegato, stampato a Londra nel 1846, il cui titolo, a un tempo modesto e pretenzioso, era Pensieri sugli ANIMALCULI; ossia, uno sguardo sul MONDO INVISIBILE rivelato dal Microscopio, di G. A. Mantell, esq., LL.D., F.R.S. (e cioè Nobil Uomo, Dottore in Legge, Membro della Società Reale). Al titolo seguiva una dedica altisonante «Al nobilissimo Marchese di Northampton» che si protraeva per dodici righe, alcune delle quali in caratteri gotici. Avevo quindici anni, e fui immediatamente folgorato: soprattutto dalle illustrazioni, poiché non conoscevo una parola d’inglese. Ma mi comperai un vocabolario, e constatai con lieto stupore che, a differenza dal latino, bastava questo aiuto per capire tutto o quasi: ossia, capivo benissimo il testo propriamente detto, in cui si descrivevano con candida precisione gli aspetti ed i costumi degli «animalculi»; capivo assai meno della prolissa prefazione, in cui si citavano Herschel e Shelley, Hobbes e Byron, Milton e Locke, e molti altri spiriti eletti che si erano in qualche modo occupati delle cose invisibili sospese tra la terra e il cielo. Ebbi l’impressione che l’autore facesse un po’ di confusione fra le cose che non si vedono perché sono troppo piccole, e quelle altre che non si vedono perché non ci sono, come gli gnomi, le fate, i fantasmi e le anime dei morti; ma l’argomento era cosí affascinante, cosí diverso dall’insegnamento che mi veniva somministrato dal Regio Ginnasio, e cosí consono alle curiosità che nutrivo in quel tempo, che mi seppellii nel libretto per più settimane, con scapito del mio profitto scolastico, ma imparando en passant un po’ di inglese. In epigrafe del libro stava un detto elettrizzante, al limite fra lo scientifico e il visionario: «Nelle foglie di ogni foresta, nei fiori di ogni giardino, nelle acque di ogni ruscello ci sono mondi pullulanti di vita, innumerevoli come le glorie del firmamento». Sarà stato vero? Proprio alla lettera, nelle acque di ogni ruscello? Mi crebbe dentro, improvviso e doloroso come un crampo di stomaco, il bisogno di un microscopio, e lo dissi a mio padre. Mio padre mi guardò con occhio leggermente allarmato. Non che disapprovasse il mio interesse per la storia naturale: era ingegnere, aveva lavorato come progettista in una grossa fabbrica in Ungheria; a quel tempo vendeva e installava motori elettrici, ma in giovinezza aveva frequentato i circoli positivisti della Torino di allora: Lombroso, Herlitzka, Angelo Mosso, scienziati scettici ma facilmente illusi, che si ipnotizzavano a vicenda, leggevano Fontenelle, Flammarion e Annie Besant, e facevano ballare i tavolini. Mio padre nutriva per la scienza un amore tinto di rimpianto, e non gli sarebbe spiaciuto che avessi seguito io la strada che lui aveva dovuto abbandonare per i casi della vita; tuttavia gli sembrava poco naturale che io adolescente desiderassi un microscopio in luogo delle molte cose allegre e concrete che il mondo offre. Penso che si sia rivolto a qualcuno per consiglio: sta di fatto che dopo qualche mese il microscopio arrivò in casa. Visto con gli occhi del poi, quello strumento non valeva molto: dava solo duecento ingrandimenti, era poco luminoso, e presentava aberrazioni cromatiche da far girare la testa, ma mi ci affezionai subito, piú che alla bicicletta a cui ero arrivato dopo due anni di petizioni e di cauta diplomazia. Del resto, la bicicletta e il microscopio erano in certa misura complementari: senza bicicletta, e partendo dal centro urbano, come avrei potuto raggiungere i giardini, le foreste e i ruscelli di cui parlava il mio testo? Comunque, prima di programmare una sortita, mi dedicai ad un inventario microscopico di quanto potevo trovare su di me e intorno a me. I capelli che mi strappavo avevano un aspetto del tutto inaspettato: sembravano tronchi di palma, e guardando bene si distinguevano, sulla loro superficie, quelle minuscole scaglie grazie a cui un capello si sente piú liscio quando lo si segue tra le dita dalla radice all’estremità che non viceversa: ecco un primo perché a cui il microscopio dava una risposta. La radice del capello era invece piuttosto ripugnante, sembrava un tubero molliccio e pieno di bitorzoli. La pelle dei polpastrelli era difficile da osservare, perché era quasi impossibile mantenere il dito fermo rispetto all’obiettivo; ma quando ci si riusciva per qualche attimo, si vedeva un paesaggio bizzarro, che ricordava le terrazzature delle colline liguri e i campi arati: grossi solchi rosei translucidi, paralleli, ma con improvvise curve e biforcazioni. Una chiromante munita di microscopio avrebbe potuto predirti l’avvenire con molti piú dettagli che non esaminandoti il palmo della mano a occhio nudo. Sarebbe stato interessantissimo, anzi, in qualche modo fondamentale, esaminare il sangue e vedere i globuli rossi descritti nel libretto, ma io non trovai il coraggio di pungermi, e mia sorella (che del resto si mostrava singolarmente insensibile ai miei entusiasmi) rifiutò nettamente sia di pungere me, sia di lasciarsi pungere. Le mosche, poverette, erano una miniera di osservazioni: le ali, un delicato dedalo di nervature incastonate nella membrana trasparente e iridescente; gli occhi, un mosaico purpureo di mirabile regolarità; le zampe, un arsenale di artigli, peli rigidi e cuscinetti gommosi: pantofole, suole Vibram e ramponi condensati insieme. Altra miniera erano i fiori, belli o brutti, indifferentemente; dai petali non si cavava molto (il mio ingrandimento non era sufficiente a rivelarne la struttura), ma ogni specie depositava sul vetrino il suo polline, ed ogni polline era bellissimo e specifico: se ne distinguevano i singoli granelli, architetture delicate ed eleganti, sferette, ovoidi, poliedri, alcuni lisci e lucenti, altri irti di creste o di spine, candidi, bruni o dorati. Altrettanto specifiche erano le forme dei cristalli che si potevano ottenere lasciando evaporare sul vetrino le soluzioni dei vari sali: il sale comune, il solfato di rame, il bicromato di potassio, e altri elemosinati dal farmacista; ma qui c’era qualcosa di nuovo, i cristalli si vedevano nascere e crescere «a vista d’occhio», qualcosa finalmente si muoveva: il microscopio non era piú limitato all’immobilità dei vegetali e delle mosche morte. Era curioso che i primi oggetti in movimento fossero proprio gli oggetti meno vivi, i cristalli del mondo inorganico. Forse quest’ultimo termine non era poi cosí appropriato. Anche nell’acqua dei vasi da fiori c’era movimento: e questo, anzi, non era solenne e ordinato come il crescere dei cristalli. Era invece turbolento e vorticoso, da togliere il fiato: un pullulare tanto piú frenetico quanto piú stantia era l’acqua del vaso. Eccoli, infine, gli animalculi promessi dal mio testo: li potevo ravvisare sulle illustrazioni, delicate, minuziose, un po’ idealizzate, e pazientemente colorate ad acquerello (me n’ero accorto toccandone una con una gocciolina d’acqua). Ce n’era di grossi e di minuti: alcuni attraversavano il campo del microscopio in un baleno, come se avessero fretta di arrivare chissà dove, altri gironzolavano pigri come se pascolassero, altri ancora giravano stupidamente su se stessi. I piú graziosi erano le vorticelle: minuscoli calici trasparenti che oscillavano come fiori nel vento, legati a un fuscello mediante un filamento lungo ma cosí sottile da risultare appena visibile. Ma bastava una minima scossa, sfiorare con l’unghia il fusto del microscopio, e di scatto il filamento si contraeva a spirale e l’apertura del calice si chiudeva. Dopo qualche istante, come se la paura gli fosse passata, l’animaletto riprendeva fiato, il filamento tornava ad allungarsi, e guardando bene si distingueva il piccolo vortice da cui le vorticelle traevano il nome: bruscolini indistinti roteavano intorno al calice, e sembrava che qualcuno vi rimanesse intrappolato. Ogni tanto, come se la sedentarietà le fosse venuta a noia, una vorticella levava l’ancora, ritirava il filamento e se ne partiva alla ventura. Era proprio una bestia come noi, che si spostava, reagiva, mossa dalla fame, dalla paura o dalla noia. O dall’amore? Il sospetto, soave e conturbante, mi venne il giorno in cui per la prima volta ero andato fino al Sangone in bicicletta, e avevo portato a casa un campione d’acqua stagnante e di sabbia del torrente, che allora era pulito. Qui si vedevano mostri: enormi vermi lunghi quasi un millimetro, che si torcevano come torturati; altre bestiole trasparenti, visibili a occhio nudo come puntini scarlatti, che sotto il microscopio si rivelavano irte di antenne e di ciuffi, e si muovevano a scatti, come pulci naufragate. Ma la scena era invasa dai parameci: affusolati, agili, storti come vecchie ciabatte, saettavano cosí veloci che per seguirli bisognava ridurre l’ingrandimento: bruscolini indistinti roteavano intorno al calice, e sembrava che qualcuno vi rimanesse intrappolato. Ogni tanto, come se la sedentarietà le fosse venuta a noia, una vorticella levava l’ancora, ritirava il filamento e se ne partiva alla ventura. Era proprio una bestia come noi, che si spostava, reagiva, mossa dalla fame, dalla paura o dalla noia. O dall’amore? Il sospetto, soave e conturbante, mi venne il giorno in cui per la prima volta ero andato fino al Sangone in bicicletta, e avevo portato a casa un campione d’acqua stagnante e di sabbia del torrente, che allora era pulito. Qui si vedevano mostri: enormi vermi lunghi quasi un millimetro, che si torcevano come torturati; altre bestiole trasparenti, visibili a occhio nudo come puntini scarlatti, che sotto il microscopio si rivelavano irte di antenne e di ciuffi, e si muovevano a scatti, come pulci naufragate. Ma la scena era invasa dai parameci: affusolati, agili, storti come vecchie ciabatte, saettavano cosí veloci che per seguirli bisognava ridurre l’ingrandimento: navigavano nell’oceano della loro goccia d’acqua ruotando intorno al loro asse, sbattevano contro gli ostacoli e subito si voltavano e ripartivano, come motoscafi impazziti. Sembravano in caccia di luce e d’aria, solitari ed affaccendati: ma ne vidi due frenare la corsa come se l’uno si fosse accorto dell’altro, come se si fossero piaciuti; avvicinarsi, aderire stretti, e proseguire il viaggio insieme con passo piú lento. Come se in questo coniugarsi cieco si scambiassero qualcosa, e ne traessero un misterioso infinitesimo piacere.